Per ricordare (e rinnovare) la tradizione dei “fucanoi”, i falò che tradizionalmente si tengono a Buccino il 19 marzo in onore di S. Giuseppe, riproponiamo un articolo dedicato alla manifestazione nel 1959, scritto dal giovane buccinese Nicola Murano e pubblicato sulla preziosa rivista “Aspetti Letterari”, diretta dal prof. Gerardo Raffaele Zitarosa, nostro concittadino onorario.

Un racconto, una finestra aperta sul passato ed una preziosa testimonianza delle tradizioni buccinesi…

Buccino, 18 marzo 2017

Emanuele Catone

Folklore a Buccino. I Falò di S. Giuseppe

S. Giuseppe, patrono riconosciuto della Chiesa universale, è il protettore dei lavoratori; però a Buccino, quest’anno, la solennizzazione del Santo sotto il profilo simbolico della seconda attribuzione non è potuta avvenire in coincidenza con l’anniversario della sua festività, perché in chiesa si procedeva a lastricare il pavimento con mattonelle regalate da un devoto; ed è stata differita di qualche mese, senza che abbia perduto nemmeno un poco della sua importanza cristiana e sociale.

Il simulacro del padre putativo di Gesù non viene portato in processione per il paese, nè ci sono gli spari che punteggiano il lento incedere dei sacri cortei. Niente di tutto questo; ma, oltre alle innumerevoli funzioni liturgiche, in onore di S. Giuseppe si accendono, nelle piazzette dell’abitato, i caratteristici falò. Ed è principalmente su questa tipica nota di folklore che desidero intrattenere piuttosto a lungo il lettore.

La sagra del falò risale ad epoca lontana ed è difficile determinarne con esattezza la data d’inizio, nonchè il significato che certamente le fu dato da coloro che la istituirono. Chissà cosa si dovette ravvisare nelle lingue di fuoco che salivano rosseggianti verso il cielo! Forse si pensò che il caldo di quella fiamma cementasse l’unità della famiglia, oppure contribuisse a rinsaldare i vincoli di amicizia tra gli abitanti del medesimo rione. Essendo le mie, sia bene inteso, mere illazioni interpretative campate nel mondo della fantasia, mi fermerò sugli aspetti esteriori della manifestazione, che sembrano di particolare avvenenza in quanto opera esclusiva dei ragazzi, risultato della loro iniziativa.

Un mese prima di S. Giuseppe comincia l’alacre loro lavoro. Si riuniscono a seconda del rione di cui fanno parte. Ne vengono fuori gruppi di omogenea e compatta affinità etnica, divisi da insanabili rivalità campanilistiche, per la qual cosa non è difficile assistere a baruffe che spesso scoppiano tra i ragazzi delle diverse zone di Buccino.

Fanno ricordare le lotte accanite che si svolgono tra le contrade della città di Siena e i derbj calcistici strapaesani, che scindono i tifosi d’una medesima città in due opposte fazioni antagoniste, l’una contro l’altra armata.

Partono, dunque, i ragazzi dal paese verso le tre pomeridiane, forniti di fune, quasi sempre senza avere preventivamente avvisato la mamma per timore di rimanere bloccati in casa; occorre onestamente ammettere che nessun genitore può autorizzare suo figlio a sottoporsi alla sfacchinata del viaggio in campagna, per ritornare con un carico sulle spalle. Poi bisognerebbe vedere di quante attenzioni fanno oggetto la loro persona per non apparire stanchi, dopo la gran fatica, agli occhi dei genitori, nel momento in cui rincasano.

Spesso non arrivano al forteto (1) e si fermano lungo il percorso, avendo in un fondo adocchiato dei salmenti messi dai contadini ad essiccare tra i filari della vigna; come un nugolo di polvere agitata dal vento, scendono per la scarpata che separa l’appezzamento dalla viottola, e in due salti sono presso i tralci intrecciati e piegati a più riprese. È rapido l’approntamento della fascina; qualche volta i ragazzi non sono d’accordo sul trasporto della più pesante: la ragione è che ognuno vuol passare per il più forte e si arrende solo quando ci ha provato a tenerla addosso e subito ha dovuto gettarla, non di rado sui piedi dell’amico che gli stava vicino, perché si sentiva flettere le gambe sotto l’enorme peso.

C’è chi carica la sarcina sulle spalle e chi invece la porta sul capo come usano le donne, ma tutti camminano a fila indiane sulle strade disseminate di mota (2) sdrucciolevole. Per reggere il fardello con le mani non si riesce a guardare la stretta carreggiata aperta dagli asini nel denso pietrame, sicché è facile che qualcuno possa incespicare e cadere bocconi nel bel mezzo d’una pozzanghera. Si può immaginare ciò che succede: il tonfo fa volare per un certo raggio delle violente spruzzate di fango, che investono gli altri pedoni sui cui volti si vengono a stampare delle patacche nere in grado di cambiare radicalmente i connotati fisici del sembiante. Che dire di colui che è caduto? È inutile parlare dei tremendi sforzi compiuti per alzarsi da quella posizione incomoda e maleolente. (C’è da osservare che le bellette (3) si trovano negl’incavi delle strade dove, attratti da un misterioso senso d’intesa istintiva, gli asini si fermano per riempirli dei loro escrementi liquidi). A volte i primi tentativi non bastano perché il caduto non può puntellare i piedi contro alcun che di fermo e di solido e rimane ancora a giacere nel livido pantano. E poiché non può ricevere aiuto dai compagni oberati del medesimo onere, cerca in tutti i modi di portarsi carponi all’asciutto. Finalmente ce l’ha fatta e si mette in piedi, tirando un sospirone di sollievo! Ma come è mutato: non si riconosce più con quella patina di lerciume che gli nasconde il volto e le mani! Anche i compagni ne ridono, e non escludo che si sganascerebbe pure lui dalle risa se potesse vedere, attraverso lo specchio, in che modo si è impiastricciato con la maledetta scivolata. Non vi dico dei vestiti di cui è difficilissimo rintracciare il colore originario per le pillacchere (4) che si sono attaccate in ogni punto di essi. Le scarpe addirittura sembrano uscite dal calco d’uno scultore, perché le giunture delle tomaie e l’impuntura delle suole non si vedono più.

Come dovrà fare per ritirarsi? Egli non si dà per vinto e alla prima fontana lava in fretta le mani e la faccia; infine, appena le calzature sono sgusciate dagli scarponi di terriccio, si fa prestare il cappotto da un amico e via a casa per cambiarsi d’abito. Così almeno per quel giorno l’ira paterna è evitata.

Dove conservano la legna? Uno scantinato, un angolo di stalla, un po’ di spazio nella cantina e nell’orto del ragazzo che avesse la fortuna di possederlo, può servire alla bisogna. Quando non fossero sufficienti tali depositi, si ricorre ai solai, ai cortili, ai mandrelli (5) che non mancano nell’ambito del rione; il mucchietto del primo giorno diventa sempre più grande per l’aggiunta pomeridiana di nuova legna; la catasta aumenta, s’ingrossa, raggiunge sommità considerevoli; poi è presa d’assalto dai ragazzi che vi salgono sopra con gran fragore e cominciano a pigiare per ridurne il volume, in maniera da ottenere maggiore spazio nell’improvvisata legnaia.

Quando arrivano al bosco subito si mettono al lavoro: le ginestre sono spezzate e gli arbusti contorti e stroncati alla ceppaia da affilate cesoie; in poco tempo la zona d’operazione rimane come rapata, libera dagl’intricati sterpi della macchia: novelle orde di Attila, portano via tutto e non lasciano in piedi un filo d’erba!

Naturalmente è enorme il danno che arrecano alla vegetazione arborea: ma essi non si rendono conto di ciò e strappano e svellono come se si trattasse della vigna di Renzo o di demanio comunale. Qualche volta accorre il padrone che li ha visti oppure ha sentito il trambusto dello sfrascare; ma, prima che egli si avvicini, i razziatori della sua selva hanno già abbandonato tutto e scappano per non farsi riconoscere, o peggio, per non farsi acciuffare.

***

Il giorno di S. Giuseppe il materiale accumulato è sfornato dai nascondigli e portato nella piazzetta dove deve essere arso un po’ per volta. Anche le ragazzette non lesinano la loro collaborazione e fanno ritorno, «dopo lo scendere e il salire per le scale» delle tante case formanti la piccola comunità rionale, con rami di ulivo e ciocchi di quercia pesanti e nodosi, mentre i maschi vanno guastando le siepi dei giardini e scerbando (6) dagli alberi le brocche (7) fiorite.

Verso le ore ventuno hanno termine in Chiesa le funzioni religiose, che peraltro sono lunghe per il panegirico intessuto sul Santo; ed il tempio, gremito di fedeli in questa circostanza, si svuota a poco a poco. Ecco il momento di dar fuoco al grande falò. Un denso ed accecante fumo si leva prima dello sprigionare delle fiamme; allorchè queste guizzano con impeto spaventevole, un caldo soffocante costringe gli astanti a tirarsi indietro; qualche persona anziana, invece, si arma d’un lungo palo con la punta biforcuta e impedisce che i tizzoni brucino soltanto da una parte.

Bisogna dire che non tutti i rioni hanno piazzette: in tal caso il fuoco lo si deve accendere nel budello d’una via di transito; i muri dirimpettai, pertanto, s’impregnano di caldo, data la breve distanza che li separa, e lo irradiano; di conseguenza le persone costrette a passare di là se la svignano di corsa per non ustionarsi; altri più prudenti o poco elastici per l’età avanzata, non escluse le donne, specialmente quelle ancorate alla moda superata delle gonne lunghe e pieghettate e dei corpetti accollacciati terminanti a gorgiera (8), cambiano itinerario, non conta se ciò importi un po’ di strada in più per recarsi a casa.

Dappertutto si ode il caratteristico crepitare delle ginestre brucianti, lo scoppiettare dei tortuosi pezzi di quercioli, da cui s’involano miriadi di monachine, nembi di fiammelle, che salgono verso il cielo e si perdono nel buio del firmamento.

S’intonano all’unisono, da parte dei più giovani, le canzoncine di S. Giuseppe, mentre le vecchiette biascicano orazioni e sgranano il rosario.

Non manca mai la nota comica om questi divertimenti a carattere popolaresco; c’è sempre l’ubriaco che vuole saltare «il fucanoio». Sono risate da matti che esplodono improvvise, rumorose e mettono nei presenti un senso di piacevole attesa per uno spettacolo annunziatesi oltremodo divertente.

È vero che ha deciso di saltare, ma nicchia forse impaurito dal cimento dell’ardua impresa. Egli, finalmente consapevole del rischio che sta per correre, vorrebbe ritornare sui suoi passi e rimandare il saggio della sua bravura atletica a più tardi, magari aspettando il momento in cui le fiamme avranno moderato la loro portata. Ma la folla non gli dà tregua e gli ricorda di mantenere la promessa, ove mai non voglia scadere nella stima della quale si onorano di circondarlo. Lui non deve fare la figura del pusillanime, anzi con un atto concreto di coraggio vuole dimostrare che la taccia di fifone è appioppata immeritatamente alla sua tempra di vecchio soldato del primo conflitto mondiale. Purtroppo al pensiero non corrisponde l’azione: evidentemente è più facile parlare che fare! La folla lo istiga, lo bersaglia di epiteti ingiuriosi, lo motteggia, lo rimbrotta, vorrebbe addirittura spingerlo sulle fiamme che ardono senza interruzione, perchè continuamente alimentate con secca sterpaglia. Per quanto stenti a mantenersi in bilico, riesce a schivare gli urtoni e si porta sulla pista di lancio. Prende la rincorsa e, appena arriva in prossimità dell’ostacolo da superare, si ferma di botto, arretrando come il cavallo quando si adombra. A questo punto i giovanotti schiamazzano, lo malmenano, lo insultano; allora, in un momento di parossistica esaltazione, ritenta la prova, ma ripete il gesto del rifiuto come perviene nei pressi del gran fuoco. Quanto è pentito di avere compromesso la sua reputazione, formulando una decisione avventata e presa tra i fumi del vino.

Ebbe più fortuna il Savonarola quando un acquazzone, sopravvenuto improvvisamente, mandò a monte «la prova del fuoco», che il bollente francescano doveva sostenere in piazza della Signoria a Firenze, per affrontare il giudizio divino in seguito alla scomunica inflittagli dal papa Alessandro sesto.

Ripresosi dal fiasco del primo tentativo e gesticolando con le mani, il poveruomo fece capire che gli era ritornato il coraggio. Andava in onda così il secondo tempo dello spettacolo.

Il nostro fa ora sforzi sovraumani per darsi un contegno, un’aria di distacco; ha compreso dopo tanto che non può rifiutarsi, altrimenti sarebbe per lui la derisione, la commiserazione, il compatimento: e poi il prestigio della sua onorabilità dove andrebbe a finire? Da uomo puntiglioso e caparbio doveva dare un segno tangibile delle sue capacità di saltatore; avendo deciso, dunque, si soffregò le mani, si abbassò un po’ in avanti per prendere l’aire (9) e via come uno scoiattolo! Ma la paura non lo aveva abbandonato e aggirò il cerchio di fuoco. Indi scomparve. Aveva illuso tutti, però portava a casa intatta la pelle del suo volto.

***

Suonano le dieci all’orologio della torre; poi le undici: è arrivato il tempo di dare fondo alle scorte. I ragazzi sono restii a terminare, e giustificano la resistenza facendo notare che la loro fatica sarebbe coronata da clamoroso insuccesso se la manifestazione ignea cessasse prima di quelle che si svolgono in altri posti.

Intanto si fa più notte ed è unanime la richiesta di affrettare il rito; tosto del gran rogo, della colossale pira se così il falò si può chiamare pur non servendo per cremare cadaveri, rimane un grosso monticello di brace, da distribuirsi in parti uguali tra gli abitanti del vicinato, ed al posto dei carboni accesi non resta che l’impronta della legna incenerita.

Anche in campagna si accendono i fuochi votivi; là c’è dovizia di combustibile! Basta affacciarsi ad una finestra per vederne in tutte le contrade dell’agro. Picchiettano il paesaggio agreste e ardono a devozione del Santo, come se fossero stelle rubate al cielo e messe in terra per illuminare più da presso l’umano sentiero. Hai l’impressione, guardando quei granelli di luce, che siano vicini, che si trovino a poca distanza da noi; invece sono tanto, tanto lontani! Par di sentire il canto di coloro che sono presenti, di udire le litanie che intonano nel silenzio dei loro campi seminati.

Poi i falò cominciano a spegnersi a poco a poco, a guisa dei lucernini che la tradizione vuole ai piedi del Cristo nel Sepolcro, quando incomincia a finire l’olio che li mantiene in vita.

Pure in campagna la legna è finita e l’umile gente fa ritorno ai casolari per dormire!

Il silenzio della notte ha ora spiegato le sue ali; in terra sono cessati i rumori e lassù, nel cielo, Iddio continua a guardarci con la pupilla dei tanti corpuscoli luminosi appesi all’etereo padiglione che ci sovrasta.

Buccino, giugno 1959.

Nicola Murano

Estratto da «Aspetti Letterari», anno 1959, fasc. III, pp. 64-67.

(1) Boscaglia.
(2) Fango.
(3) Melme.
(4) Macchie di fango.
(5) Luoghi oscuri, porcilaie.
(6) Sradicando.
(7) Germogli.
(8) Fascia di tela che avvolgeva il collo e il mento.
(9) La rincorsa.

NB. Le note non fanno parte del testo originale. Sono state aggiunte per chiarire alcuni termini poco usati (E.C.)

La foto risale agli anni ’80 ed è di Mario Chiariello, che ce ne ha gentilmente concesso l’uso.

Essa è tratta dall’archivio di “Buccino nella Storia” consultabile su Facebook e su Flickr.